domenica 1 novembre 2009

L'acquario

Mi ero incantato a guardare incuriosito attraverso il vetro le creature che nuotavano nell’acquario, che pochi giorni prima avevo comprato.
Una ventina di pesci, che guizzavano tra le piante acquatiche sfavillanti come lingue di fuoco. Il più colorato, correndo, batteva come un ariete contro le pareti traslucide, fuggendo, quando con un dito mi avvicinavo al vetro. Un altro, non si spostava di un millimetro guardandomi con aria di sfida, coraggioso come un leone.
Li avevo voluti a coppie nella speranza che si moltiplicassero. Nei pesci la femmina è comunemente più grande; invece due di queste bestiole erano talmente uguali da sembrare gemelli, si assomigliavano in colore e grandezza talmente che avrei dovuto metterli sul piatto della bilancia per dirne la diversità e non avrei riconosciuto il maschio dalla femmina se non per il motivo che quest’ultima portava sulla coda un segno nero, simile al pungiglione dello scorpione. Tuttavia al contrario di quella raccapricciante creatura, essa aveva un corpo elegante e il muso mansueto di animale buono. Nell’osservarli mi accorsi presto, che ognuno di loro aveva un suo carattere ben preciso.
Il più grosso, forte come un toro, allorché la macchinetta elettronica dispensava loro il pasto, scacciava i compagni a suon di testate, e questi fuggivano, rincorsi dal grosso rivale che non si accorgeva così facendo di lasciar libero il campo ad altri concorrenti al pasto. Un altro all’avvicinarsi di qualsiasi persona, timido come una vergine, cerca rifugio dietro il mucchio delle pietre vulcaniche, che nascondono il marchingegno delle bolle d’aria.
Rossi, dorati, guizzanti, sfavillavano come fiamme, in perpetuo movimento. Si dice che del regno animale, i pesci siano gli unici immuni dal cancro; a vederli cosi vivaci non si penserebbe minimamente di smentire il detto: “E sano come un pesce”: essi sono il ritratto della salute.
Quello che più mi diverte è osservare, il più pittoresco di questi esseri; l’arciere. Quando qualche insetto si posa sul pelo dell’acqua, egli emettendo un piccolo getto lo colpisce così da farlo inabissare. E’ mirabile l’abilità del piccolo sagittario pinnato che centra il bersaglio con precisione millimetrica.
Mai fermi, nuotano tutto il giorno insieme, e ognuno sembra solo. Allo spegnersi del neon che illumina il loro piccolo mondo, ciascuno occupa il proprio territorio tra le erbette fluttuanti del fondo, che sembra il vello del capricorno che ondeggia sferzato dal vento sulle montagne orientali. Passano la notte bivaccando fino al ritorno del nuovo sole, che gli farà risplendere ancora una volta il manto rosseggiante contro l’azzurro del cielo dipinto sul fondo dell’acquario.
In questa bolla, non vi è dubbio, vive un piccolo universo in perpetuo movimento, le cui stelle sfavilleranno fino a che, il fato, il caso o… Dio lo vorrà.

giovedì 14 maggio 2009

La scalata

Era già trascorsa la mattina da che avevo iniziato a salire, e il pomeriggio era imminente, la stanchezza era alle porte della debolezza.
Scalare una montagna, anche se di difficoltà media non è facile. Avendo trovato un appiglio sicuro, riprendevo fiato riflettendo sul da farsi. La gamba d’appoggio tremava nello sforzo: E mi venne da ridere, pensando al verso di Dante, quando si inerpicava sulle montagne infernali, “…il piè fermo era il più basso…”. Intanto mi guardavo intorno per vedere dove fosse meglio aggrapparsi per salire con più sicurezza. Udivo le folate della brezza fischiare contro gli speroni di roccia, e agghiacciarmi il sudore della fronte. Non si udiva altro rumore, nè altro che non fosse di solitudine e di vento. Guardai con attenzione ciò che mi sovrastava. In un lampo mi resi conto che non mancava molto per raggiungere una piccola balconata, ove mi sarei potuto riposare, prima di procedere per lo sforzo finale.
Facendomi forza, ripresi la salita, ma mi accorsi che il peso dello zaino non mi avrebbe consentito di poter andare sù ancora per tanto, la zavorra sulla schiena mi era ormai insopportabile.
Il respiro affannato mi opprimeva il petto fino al punto di ferirmi i polmoni, con la loro imprescindibile necessità. Facendomi violenza superai alcuni appigli, e appoggiando finalmente il gomito alla balaustrata, guadagnai l’approdo sicuro.
Vinto quel pericolo, subito una nuova ansia mi agitò, quella di essere colto dal buio, prima di aver portato a termine il mio viaggio ascensionale. Mitigai la nuova angoscia con un ragionamento. Vedendo la cima della vetta ancora lontana, pensai che con quel peso alla schiena non sarei riuscito a raggiungerla prima del buio. Così presi una decisione rapida: slacciai le fibbie e i cordoni dello zaino e apertone la bocca, mi liberai dei pesi superflui. La prima cosa che gettai nel vuoto furono le liti in famiglia, poi mi svincolai del dispiacere della morte della nonna, scaraventai nel baratro la separazione dei miei genitori, e giù anche la lunga malattia di mia madre, ed in fine mi sciolsi del fardello più grosso e pesante: i mille e mille disgusti della vita, scaricai quel peso, facendolo ruzzolare giù per il dirupo, poi cercai se vi fosse rimasto qualche altra cosa da buttare. Frugando nel fondo del sacco, vidi che era rimasto solo un piccolo involto di tela grezza, per altro leggerissimo. Lo svolsi e rimasi meravigliato, ritrovandovi i pochi momenti di felicità di cui non ricordavo nemmeno più l’esistenza.
Sorridendo richiusi lo zaino e ripresi l'ascesa verso la vetta. Ora con più sereno vigore.