Dik il gigante
Il gigante sudava, attaccato agli attrezzi della palestra come il bue all’aratro, la fatica lo esaltava e le ore trascorse agli ordini del suo alter ego lo ripagavano e lo gratificavano.
Quando sotto la doccia vedeva i rivoli d’acqua disegnare e mettere in evidenza le rigonfiature dei muscoli, era fiero di se stesso Non assumeva molti anabolizzanti, come facevano la gran parte dei suoi colleghi di fatiche, perché, pensava dal profondo del suo narcisismo “Io non sono come il gregge io sono Dik il gigante”. Le poche pastiglie che ingeriva, gli servivano solo per perfezionare il “soma” (come chiamava il proprio corpo, nel suo linguaggio ricercato), per arrotondare i glutei, i sartori, e soprattutto gli addominali, di cui aveva una vera e propria venerazione. Passando davanti allo specchio appannato dello spogliatoio, sempre affollato dagli altri narcisi, lui non dava nemmeno un’occhiata, al massimo, nel passare si accarezzava la zucca rapata con il palmo della mano. Nel vestire no, quella era un’altra cosa, lì era ricercato, essenziale ma ricercato. Vestiva con capi raffinati, sempre in mai out, il colore del suo guardaroba, non lo impegnava molto, vestendo solo il nero; anzi nero su nero per la maggior parte delle volte. Come diceva lui: “Il nero è un colore che non è mai superato, sempre elegante, e dà un certo tono”. Non pensando, al suo contrario, come agiscono tutti perfetti, nei confronti dei loro ragionamenti, che il nero è la negazione del colore. Ma Dik aveva solo certezze, e la sua verità era la sua forza. Quando camminando il suo soma si rifletteva nelle vetrine, era fiero di se stesso. E quel vezzo di ammirarsi non era frutto di vanità, ma gli era necessario per perfezionare il portamento, certo com’era che il portamento fosse più importante della bellezza, anzi era la bellezza. Alto, massiccio, ricercato nel vestire come nell’eloquio, sicuro di sé e paludato in abiti funerei, il suo aspetto era di un uomo austero e cupo, e non passava inosservato.
Molly la bambina
Molly, scendeva dall’utilitaria che lasciava tutte le mattine al parcheggio della M.O.F. per fare quei due passi a piedi “che le facevano tanto bene” come era solita dire a chi le chiedeva perché non lasciasse la macchina al posteggio di Piazza Sacrati. Molly (la bambina, cosi era chiamata amorevolmente in famiglia) lavorava come impiegata in un ufficio del centro, un’agenzia di pratiche automobilistiche, in una minuscola viuzza dietro la torre di S.Paolo. Via della Luna. Un ramo del reticolo delle antiche vie estensi, un passaggio ciottolato, che dai giardini pubblici, sbocca nella romanica Via della Rotta, ora via Garibaldi.
Molly era ancora giovane, aveva compiuto nell’ultimo settembre, quel numero di anni che una donna non dichiara più volentieri, alta, magra, al limite dell’anoressia, chiome nerissime e fulve, sempre elegante, mai un nulla fuori posto, per questo, buona parte dei suoi stipendi, transitavano direttamente dal conto corrente del suo principale, alle casse dei negozi di abbigliamento, profumerie e parrucchiere. Il resto dello stipendio veniva gelosamente custodito, per diventare durante il periodo delle ferie, un bel viaggio, cosa che la ragazza, prediligeva più d’ogni altra cosa. Aveva visitato già le più belle città d’Europa e quelle che mancavano al suo curriculum, vivevano nei suoi sogni, come mete future.
L’incontro
La pioggia scrosciò inaspettata. La ragazza si rifugiò sotto i portici di fianco alla basilica di S.Domenico. Per fortuna la pioggia l’aveva colta di sorpresa nei pressi di quel ricovero. Dopo la corsa, si diresse con calma fino in fondo al loggiato, al termine del quale vi sono pochi scalini, che riportano il passante sul piano stradale. Entrò dall’angolo di piazza Sacrati, nel bar dove era solita prendere il caffè prima di recarsi al lavoro. “Ciao Molly! Che tempo eh? Caffè e acqua minerale naturale”? Disse la barista quasi aggressiva. Continuando a parlare sbattendo il colino della macchina del caffè nel cassetto dei fondi e senza dare il tempo a Molly di rispondere,. “Che tempaccio, hanno detto che sarà così fino giovedì, siamo a posto”! Molly sorridendo, si asciugava con il fazzoletto le gocce che l’avevano colpita, e non potendo interrompere quella inutile loquacità, ammiccava con il capo facendo dondolare le magnifiche chiome.
Il locale all’improvviso si oscurò, le donne si voltarono incuriosite verso la porta-vetrata di Via Spadari, credendo per l’oscurarsi repentino a un reiterato peggioramento del tempo. La luce tornò quella di prima, quando Dik fu entrato e il suo massiccio soma permise di nuovo al chiarore di filtrare. Era fradicio ma non si scompose, calmo senza dare il minimo sentore d’impazienza, sopportando il contrattempo stoicamente come un guerriero spartano, valicò la porta-vetrata e nello stesso istante rivolto alla barista, disse con voce chiara e forte: “un espresso in tazza grande”! E lo disse educatamente, da gentiluomo, come un capitano di cavalleria che rassicura i suoi uomini, prima di ordinargli la carica. E altro non aggiunse.
Il destino
Passate alcune settimane da che il fortunale li fece incontrare, una mattina, Dik, entrò nell’agenzia di pratiche d’auto di Via della Luna. Molly riconobbe immediatamente dalla figura smisurata l’uomo che entrò a ripararsi dalla pioggia nel piccolo bar d’angolo di Via Spadari. Questa circostanza le fece tornare alla mente una vecchia canzonetta che sua madre soleva cantarle quando era piccina. La canzone narrava di una signore che cercando riparo dalla pioggia sotto un portone, incontrò la donna un tempo amata e persa di vista. Nella descrizione, la donna appariva molto elegante, indossava un cappello bianco con la veletta, da dove si intravedeva il visino mesto, passava per caso un auto di piazza e il signore fa il gesto di fermarla, lei si schernisce, lui insiste, e una volta sulla vettura egli le prende la mano, mentre il pensiero andava al tempo felice dell’amore. Molly fantasticava romanticamente ad occhi aperti, quell’incontro inaspettato aveva tutta l’aria di un presentimento e mentre il sogno vagava lontano, disse in tono freddo d’ufficio: “Mi dica signore, cosa possa fare per lei”?
“Sono qui a importunarla per avere notizie di un passaggio di proprietà intestato al signor Virgili, e chiedevo, a che punto fosse la pratica”?
“E’ lei il signor Virgili”? Chiese Molly sempre con tono distaccato ma garbata.
“No, il signor Virgili è un nostro assistito; ed io sono qui per sollecitare la pratica e mi sarebbe d’uopo sapere, per poter informare al meglio il mio cliente”. Quell’interloquire strano, e l’uso di termini desueti, fecero ancor più incuriosire Molly. Che rispose: “Abbia pazienza, in un attimo vedo, cosa posso fare. Se vi è stato ritardo, certamente vi sarà una ragione”.
“Non dubito minimamente della vostra coscienziosità, e di pazienza ne ho da vendere”. E veramente le parole davano testimonianza che l’uomo era di una calma serafica. Mentre Molly sfogliava con le dita le pratiche nello schedario, e leggeva mentalmente le intestazioni di quelle che scivolavano in ordine alfabetico. Dik disse con una voce tra vellutata e stentorea, “l’altra settimana ci siamo incontrati al bar Lia, pioveva forte e lei stava sorseggiando un decaffeinato in una tazza azzurra con un cuore rosso all’interno, indossava un vestito cru e le scarpe aperte e scollate, che le davano un tono di molta eleganza”. Molly arrossì e per non fare vedere quel suo involontario moto dell’animo, gli voltò maggiormente le spalle, e armeggiando con più energia nel cassetto, rispose: “Accipicchia che memoria, non dimentica nulla, fa sempre così con le donne”?
“Con le belle donne si, soprattutto con quelle eleganti, quelle che hanno un bel portamento ed emanano un’aura di simpatia”.
Molly si voltò sorridente e compiaciuta, per aver trovato la pratica e per il complimento ricevuto, il sorriso le rendeva il volto angelico. Il gigante ebbe un fremito, controllò l’emozione pensando:“I miei sentimenti sono solo miei e nessuno e per nessuna ragione deve percepire ciò che mi passa per la testa”. La voce di Molly lo traghettò dal suo mondo al presente: “La pratica è già pronta da giorni, venerdì scorso alle diciassette e ventidue abbiamo telefonato a casa Virgili, a dato risposta la moglie dell’interessato, lasciando detto che sarebbero passati al più presto…Dik strinse le mascelle e a volto irrigidito tra i denti disse:“Che figure mi fanno fare questi villici incivili, mi scusi signorina…signorina”? “Molly” disse la ragazza allungando la bella mano bianca, minuta e laccata sulle punte di un rosso carminio sfolgorante. “Diomede..Diomede Marangoni, alias Dik” rispose il gigante inglobando l’esile arto della ragazza nella morsa di nervi e ossa che erano le sue mani, e stringendo forte ma con una delicatezza da fare invidia ad un bulinatore proseguì: “e Dik sa quando deve delle scuse. Le chiedo venia per il mio comportamento, e la prego voler accettare le mie scuse per il tono, ma ho un’attenuante, non sempre si ha a che fare con persone della sua qualità Molly”.
“Lei non deve dire altro signor Marangoni…” “la prego Dik” l’interruppe per un attimo il gigante, “d’accordo” proseguì Molly, “sapesse Dik con che genere di persone, anche noi, dobbiamo trattare tutti i giorni”.
“Senta Molly, sarebbe per me un grande piacere, se oggi pomeriggio alle quindici, prima che torni sul posto di lavoro, lei venisse con me a prendere un caffè, così per farmi perdonare” e poiché la ragazza voleva interromperlo, lui con un espressione gentile del volto e con un gesto della mano, la fermò per poter concludere il suo invito, “se vuole, dicevo, potremo trovarci davanti al duomo e andremo a consumare l’espresso nel bar dove ci siamo incontrati qualche giorno fa”. E poiché Molly diceva che non ve ne era bisogno, che non si disturbasse, e con quei moti tergiversava, Dik proseguì nella sua perorazione, “Non mi offenda non mi dica di no, le prometto che se la mia compagnia non sarà di suo gradimento, dopo questo invito non la disturberò mai più”.
Dopo quell’incontro ve ne furono altri ed altri ancora.
Spesso, si messaggiavano, la mattina poco, più frequentemente di pomeriggio. In seguito lo fecero anche dopo cena. Era Molly che prendeva l’iniziativa Dik si limitava a rispondere, pensando che se la ragazza scriveva non vi fosse nei paragi il fidanzato e poteva risponderle senza creare fastidi, così rimaneva in seconda battuta. Le cose andarono avanti in questo modo e la loro amicizia si consolidava sempre più. Non tutto filava liscio, qualche malinteso ci fu, piccole cose s’intende. Per raccontarne una, ad esempio per tutte, successe questo: Un giorno datosi appuntamento, si capirono male. Molly lo attese invano e non vedendolo arrivare, spazientita e irritata se ne andò ferita ed offesa. E quando il giorno dopo s’incontrarono, era furibonda. Volle assolutamente delle spiegazioni. Dik le disse che non era successo nulla di grave, si erano solo capiti male. Molly, che in cuor suo non voleva altro che una giustificazione per scusarlo, si calmò. Quella sera si messaggiarono a lungo, e quando Molly lo salutò, meravigliata che fosse già così tardi, facendogli notare che prima di andare a letto doveva fare la doccia, struccarsi e che quelle piccole faccende le avrebbero fatto fare come minimo l’una. Dik ricambiando il commiato, si fece audace e con tono accattivante, le sussurrò che il rossetto, glielo avrebbe tolto volentieri dalle labbra lui, con un bacio. Molly, dopo un attimo di sorpresa, gli rispose per le rime, dicendogli che quei modi non le garbavano e gl’intimò di non farle più delle avance di quel genere, altrimenti quella bell’amicizia, per colpa sua sarebbe finita.
Le amiche
Molly aveva due amiche molto intime, che conosceva sin dall’infanzia, vicine di casa, cresciute insieme e sue coetanee. Tra loro, si confidavano tutto da quando erano bambine, dalle prime esperienze della vita, ai più gelosi pensieri. Per non parlare poi delle cose di famiglia, queste erano come un parentado e non vi erano segreti. Queste due amiche, avevano caratteri diversi, anche se nel linguaggio nei comportamenti, e nel modo di pensare erano simili. Comuni erano anche le loro amicizie.
Quando Molly vuotò il sacco, con Cinzia, la più trasgressiva delle due, la più provocatoria, sulle prime la prese in giro, “Proprio tu” diceva: “Che sembravi inattaccabile, ed ora mi vieni fuori che con quello ci stai volentieri insieme, si, così, tanto per parlare, ma dai; dì la verità che ti piace”!
“Se la metti così non ti racconto più niente, bell’amica che sei, non ti credevo cosi stronza”!
“Ma dai, non fare la bambina, mi viene da ridere a pensarti con quello, tu cosi esile e lui un orso di centodieci chili, anzi sai come lo chiamano nel bar da Settimo”?
“No… come lo chiamano”.
“Lo chiamano Gigio, per quel suo parlare strano, quel comportamento pacato, ma per me è un modo finto, se quello s’arrabbia diventa una bestia”.
“Non ceredo con me è sempre così attento, così premuroso”.
“E già, cosa vuoi che faccia, che ti prenda a pugni, per me, quello li, fa il buttafuori in un qualche locale di Bologna, io ho chiesto in giro, per sapere che mestiere fa, ma nessuno ne sa niente, neanche al bar di Via Mazzini”.
“Il giorno che è venuto in ufficio, mi è sembrato di capire che lavorasse per terzi come una specie di poliziotto privato”.
“O bella! Cosa vuoi che ti dicesse, faccio il serial killer, ma dai anche te”?
Cinzia era una donna libera, aveva molto tempo a sua disposizione e frequentava diversi bar, pub e altri locali di quel genere e tirava tardi quasi tutte le notti, era in quei locali che pescava le sue conoscenze. Per questa ragione, gli individui che praticava, così come i luoghi erano borde lain. I suoi amici, erano biasa not, tira tardi, sciupadizz, per usare un eufemismo fin de siècl, nottambuli. Persone vissute per loro fortuna in un tempo opulento, ove si può vivere agiatamente, senza faticare molto, se si ha lo stomaco di farlo. Ne colti, ne stichi di santi, erano come avrebbe detto un filosofo scolastico: “Uomini con il destino segnato”! Oppure come sentenzia Piron, filosofo avvinazzato dell’università dei “Tri scalin” in perfetto dialetto: “polli di batteria, buoni a nulla, che fino a quando gli danno il mangime ingrassano, quando non ce ne sarà più, moriranno bestemmiando senza sapere il perché”. Cinzia che aveva lacciuoli a gran dovizia, mise l’amica sul chi va là: “Stai attenta” le disse, “Quando Gigio reclamerà quello che tacitamente prometti, per te si metterà male”.
“Ma cosa gli ho promesso sentiamo”? Rispose stizzita Molly.
“Se ti chiamano la bambina un motivo c’è allora! Un uomo ha pazienza fino ad un certo punto poi…vuol tirare le somme”.
Di tutt’altro tenore erano le parole di Stefy, l’altra sua amica, questa l’incoraggiava invece, “Finalmente ti vedo viva, allegra, prima eri sempre così prevedibile, così scontata”.
“Tu dici? E pensare che Cinzia mi fa paura, mi dice di stare attenta”.
“E’ meglio che stia attenta lei, con quei tipi che frequenta. Alla sera vanno via fiumi di vino, wodka e grappa, ha degli amici che al posto del fegato, tengono un alambicco, per non parlare di quelli che sembrano incessanti mangiatori di pandoro, per via del bianco che hanno sotto il naso”.
“Tu dici che non è sbagliato che lo frequenti, sai mi faccio paura da sola, non mi era mai capitata una cosa simile, ma quando sono con lui sto bene. Pensa se lo venisse a sapere Mirko è la volta che mi rifila due ceffoni”. L’amica la rassicurò sostenendo che non vi era ragione che il fidanzato lo sapesse, che alla fine dei conti cosa vi era di male? Concluse consigliandola di scacciare i sensi di colpa e che godesse quei momenti di felicità, poiché nella vita erano così pochi”.
Gli incontri
Dik attendeva Molly al solito posto. La barba lunga di un giorno, guardava straniato i giornali esposti dell’edicola di Piazza Sacrati, cupo e tenebroso. Molly si accorse già in distanza della stranezza. Da che lo aveva conosciuto, non lo aveva mai visto in disordine, Appena gli fu vicina, ancora prima dei saluti gli chiese ragione di quel contegno. Lui si scusò immediatamente, raccontandole come quella giornata fosse stata pesante, non aveva avuto un attimo di respiro. Lo avevano svegliato presto dall’ufficio, per comunicargli che avrebbe dovuto recarsi a Vercelli, per un mandato importante. Raccontò che aveva mangiato solo un panino in autostrada e anche cattivo, il lavoro di Vercelli che doveva essere una sciocchezza, invece si era trasformato in una seccatura gigantesca. Molly, capì e con voce quasi materna gli rispose che avrebbe potuto telefonarle e dire che era stanco, lei avrebbe compreso e si sarebbero incontrati l’indomani. Lui, guardandola fissa rispose, che per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato alla sua compagnia quella sera. “Tu per me sei troppo importante Molly. Molly gli vide gli occhi arrossati entro le orbite livide, le gote ispide, ebbe una sensazione, fra paura e tenerezza. Rispose di essere lusingata, ma che non scordasse il loro patto. Lui annuiva con il capo mentre la invitò a camminare.
Parlando, percorrevano le belle strade ferraresi, cosi mirabili all’imbrunire e quando arrivarono al castello svoltarono nella via nobile. La bella strada realizzata a schiena d’asino, si mostrava a colpo d’occhio tutta intera, spalleggiata dai gentilizi palazzi blasonati. Giunti all’angolo più bello d’Europa, ove è il Palazzo dei Diamanti, bugnato a tasselli piramidali di marmo bianco, attraversarono la strada che fu la più larga del mondo, e si trovarono al cospetto del Palazzo Prosperi Sacrati. Lo superarono. L’acciottolato D’Ercole I d’Este invita il viandante a proseguire fino in fondo, indicandogli il percorso con le sue doppie fila di pioppi, che nell’ora bassa oscurano maggiormente il crepuscolo. Il passante sagace, perspicace la bellezza e ammira con intelligenza quello che le ombre in quella via disegnano. Parlando i due incrociarono senza avvedersene, la via della Certosa. Un breve tragitto lasciato per miracolo come un tempo in terra battuta e in fondo chiusa da una cancellata, che fa da prospetto all’affascinante facciata di S.Cristoforo. Il sentimento del fortunato viandante, immerso in quelle magie d’arte e bellezza, trova l’esaltazione, quando giunto sulle mura, scopre sul baluardo, l’antica Porta degli Angeli.
Nel momento in cui la coppia arrivò a quel monumento, Dik era lontano dall’idea d’arte, quanto Mengele a Gandhi. I sui pensieri erano tutti per Molly. Si sedettero su di una panchina, il lungo viale alberato era pieno dei suoni degli uccelli. Di tanto in tanto qualcuno passava correndo, la ghiaia lo annunciava di lontano, poi il calpestio diveniva presente, infine si perdeva sempre più flebile nel nulla. Abbuiava. Molly guardando orologio disse: “Dobbiamo andare, Mirko verrà tra un po’ a prendermi, allo studio dell’analista. Andiamo”. “Aspetta ancora un poco, telefonagli e digli che ritardi di mezzora”.
“Andiamo Dik, andiamo che è tardi, ti prego”. Dik si alzò, la ragazza fece altrettanto. Si trovarono di fronte, le due altezze erano spropositate, pur essendo di statura media, il volto di Molly arrivava allo sterno di Dik, egli la fissò, poi la prese per le ascelle portando il viso di Molly al pari del suo e la baciò. Molly rimase stupefatta, poi vinto lo sbalordimento, iniziò a dibattersi fortemente, lottava con tutta la sua forza, ma sembrava un passero nelle fauci del gatto. Finalmente quando Dik credette di aver domato la sua resistenza allentò la presa e le disse: “Vedi! Non era poi tanto difficile. Ora possiamo andare”. Sostenendola delicatamente l’accompagnò fino a terra. Toccato il suolo, Dik lasciò la presa. La ragazza si afflosciò sull’erba come un pupazzo di stoffa. Dik impallidì la raccolse come si raccoglie un fiore e si rese conto d’averla uccisa.
Epilogo
Lo arrestarono subito. Dai tabulati del cellulare, arrivarono a diverse persone, gli alibi scremarono la totalità degli indiziati. Dik non resistette troppo agli interrogatori, cadde in contraddizioni si confuse ed infine confessò.
Con le mani intrecciate sul cranio rasato, raccontò al commissario i fatti terminando con un: “Non volevo, non volevo ammazzarla, ambivo solo darle un bacio, ma lei mi si opponeva, allora Signor commissario, l’ho stretta forte, per farle capire quanto l’amavo, l’ho stretta con troppo vigore” e singhiozzando proseguì “Non ho mai saputo misurare la mia forza, né i miei sentimenti, chiedo perdono. Ma perché? Perché veniva da me, per poi dirmi sempre di no? Perché mi cercava allora?” e urlando tra i singhiozzi spenti dalla commozione, continuava a porre sempre la stassa domanda. “Perché Signor’ commissario? Perché”?
Il commissario che non era certo una viola mammola, ordinò che lo portassero via. Si accorse che se lo avesse ascoltato ancora, si sarebbe commosso e non avrebbe voluto, per nessuna ragione al mondo, far vedere ai suoi subalterni, che una lacrima gli inumidisse il volto ispido e irsuto nonostante la seconda rasatura della giornata.
Cristiano